Il tabellone indicava un desolante “DELAYED”
“Mi spiace, signore, il volo AA 199 in partenza per New York subirà un ritardo per cause tecniche, non posso dirle di più“
Ero in aeroporto dalla mattina presto, per prendere il volo che mi avrebbe riportato a casa; a differenza delle altre volte, non ero felice di tornare a New York, nella mia New York; certo, per lavoro sono stato in tantissimi posti diversi, alcuni anche molto belli, ma mai avevo desiderato di restarci veramente; la mia casa era la, sulla 72esima strada a Bay Ridge, a meno di due isolati dalla stazione della metropolitana, in una casa di mattoni rossi e la bandiera a stelle e strisce piantata sulla facciata, come si conviene ad ogni buon americano. Eppure, quella volta sentiva qualcosa che mi legava a Milano, a quel Bed and Breakfast un po’ rustico, alla magia della luna sui navigli.
Ma chi volevo prendere in giro! stavo pensando a lei, a Sheila; a quell’incontro che mi aveva cambiato la vita, per sempre. E poi, perchè tornare? Sheila era partita il giorno prima, per andare chissà dove, in Grecia, e chissà mai quando la avrei rivista. No, non avrei avuto nessun motivo per rimanere a Milano, nessuno.
Ancora nessuna indicazione del volo; unica consolazione, aspettare nella Lounge Sala Montale invece che incastrato in qualche scomodo seggiolino al gate.
In tasca della giacca avevo ancora quel biglietto, quel tovagliolino bianco piegato in quattro, con la mail di Sheila; nonostante la avessi già trascritta nei miei contatti in agenda continuavo a tenere in tasca quel biglietto, scritto sulla mia schiena e vezzosamente decorato con un bacio a stampo. Io lo conservavo come una reliquia, e, di tanto in tanto, avvicinavo la mano al cuore, istintivamente, a controllare che ci fosse ancora, e quasi avvertivo il calore che emanava.
“Signore, si prepari, stiamo per imbarcare“
Mi alzai di scatto, come un automa, e mi diressi verso il gate B07, con il passaporto in mano, il pollice infilato tra le pagine, a tenere fermo il biglietto, un gesto che avevo fatto mille volte e che mi era diventato famigliare e automatico.
Passato il check-in, entrai nella pancia dell’enorme Boeing 777-200, buttai lo zainetto nella cappelliera e sprofondai nel mio posto, il 6A.
“benvenuto a bordo“, l’assistente di volo mi stava porgendo il menù, con quella innata e un po’ falsa gentilezza a cui sono costrette a far fronte ogni giorno; “siamo in attesa del nostro slot, le posso offrire un cocktail, nell’attesa?“
“Si, guardi, faccia lei, per favore“. Quell’improvviso scarico di responsabilità aveva spiazzato la giovane hostess, notai una piccola smorfia incrinare l’onnipresente sorriso.
tornò dopo qualche minuto, appoggiando un generoso tumbler sul tavolino, non senza averci infilato sotto il classico tovagliolino bianco.
“le ho preparato un BloodyMary, spero sia di suo gradimento“; questa volta notai che la voce era meno finta, la faccia più rilassata. Sfoderando il mio migliore sorriso risposti con un “Andrà benissimo, grazie“.
Rigirai il bicchiere nella mano per diverso tempo, osservando le goccioline scendere veloci sul vetro freddo e umido, poi, accostando le labbra al bicchiere, sentii il sapore agrodolce del pomodoro, e subito dopo la parte alcolica della vodka mi solleticò il naso, facendomi istintivamente staccare il bicchiere dalla bocca. In quella breve sorsata mi era tornata alla mente tutta la serata passata con Sheila, a partire dalla primissima occhiata, ancora sulla porta, fino al tenero bacio scambiato sotto la luna.
L’aereo era a inizio pista, i freni tirati e i motori al massimo, pronto al decollo, e dal mio posto potevo scorgere i verdi boschi che circondavano l’aeroporto; arrivando al mattino, con il treno, avevo attraversato i vari paesi che compongono l’area metropolitana intorno a Milano, costellata di piccoli paesi uniti l’uno all’altro come in una catena, come un unico, grande paesotto senza soluzione di continuità, per arrivare poi a sbucare nelle viscere dell’aeroporto, un enorme struttura a parallelepipedo, dotata di alcuni tentacoli che portano a raccolta i vari veivoli, come una grande chioccia che protegge i suoi piccoli.
“signore, le ricordo di allacciare le cinture”
Ho volato tante volte, su tantissimi aerei diversi, ma, ogni volta, riesco a farmi prendere di sorpresa dallo stacco da terra e dalla leggera vertigine che prende lo stomaco. La spinta che da questo bestione da 200 tonnellate, poi, si sente; è come se un enorme mano sollevasse con decisione un piccolo appartamento, per portarlo velocemente verso il cielo. Dopo anni, ancora non ho fatto l’abitudine a queste sensazioni.
Sheila era lontana, e io stavo per tornare a casa. Mi sistemai il cuscino e mi addormentai.
L’indomani mattina ero già in direzione di Grand Central, per fare fede ad una piccola promessa fatta a Sheila; il ritardo del volo mi aveva costretto a cancellare alcuni impegni di lavoro, e mi ero trovato in una inaspettata mattinata libera.
Nel pomeriggio sarei rientrato in ufficio, dall’altra parte della città, per rivedere le facce di sempre; Melanie, il mio capo, si aspettava un rapporto sulla mia missione, Tony mi avrebbe per l’ennesima volta cercato per inserirmi in lista nel torneo di squash aziendale, e Fanny sarebbe arrivata con il suo tupperware per offrirmi, con il caffè, uno dei suoi muffins fatti in casa. Qualche giorno dovrò dirglielo: “Fanny, non mi sono mai piaciuti, i muffins, nemmeno quelli che faceva mia madre“; ma non oggi, oggi avevo altro a cui pensare.