New York ti sorprende sempre. E’ una città che si offre sempre una possibilità. Anche nei momenti più bui riesce sempre a risollevarsi. Dopo i fatti dell’ undici Settembre, a quel tempo ero ancora a Boston, vedevo una città ferita, distrutta, governata dall’esercito e mai avrei immaginato che, qualche anno più tardi, sarebbe diventata la mia città, la mia casa.
Ero tornato da qualche giorno, e tutto sembrava rientrato nella normalità, con Melanie sempre dura e scontrosa, Tony invasivo ma buono, e i dannati muffin di Fanny. Già, la normalità, non era più quella, da quel viaggio a Milano. L’incontro con Sheila mi aveva segnato profondamente, e oramai la vedevo dappertutto, in ogni luogo, in ogni momento. Bastava passare davanti ad uno dei tanti locali e market turchi, tra la 72ma e la 5a Avenue per riportarmi al pensiero di lei. Spesso mi fermavo a bere un tè di Rize, dopo il lavoro e prima di rientrare a casa, ma, da quando ero tornato non avevo più nemmeno la voglia, di passare di la, per non tormentarmi ulteriormente.
Ad aggravare ulteriormente le cose, se così si può dire, c’era il mio vicino di casa, Nadir, che non era Turco, ma Siriano, e comunque aveva lavorato per dieci anni in Cappadocia, scorrazzando in lungo e in largo i turisti con la sua Jeep. Il conflitto Siriano, la morte della madre, lo avevano costretto dapprima a rientrare, e poi a fuggire dalla sua terra, arrivando poi, infine, a New York, ospite di un lontano parente, e poi, grazie alla città che da sempre una possibilità a tutti i volenterosi, a costruirsi una nuova vita, nella sua casetta tutta americana a Bay Ridge. Nadir era un chiacchierone, e non perdeva l’occasione di attaccare bottone ogni volta che mi incontrava, così quella sera me lo trovai sulla porta di casa, con un enorme piatto pieno di köfte, coperto dalla carta argentata, e una bottiglia di Bargylus: un vino prodotto sulle colline dell’omonimo monte.
“Uzman! ti aspettavo! ora che sei tornato, dobbiamo festeggiare!“
Nadir mi chiamava “uzman” (esperto) da quando gli avevo sistemato il computer, una sera, in cui lo trovai disperato e letteralmente piangente seduto sui gradini di fronte a casa mia; non riusciva a farlo funzionare e per lui era una cosa gravissima; quello era l’unico modo di comunicare con la figlia, rimasta in Turchia per proseguire gli studi, dato che non avrebbe avuto modo di poterla fare studiare in nessuna università Americana. Era veramente disperato: aveva provato per tutto il giorno da solo, e non aveva trovato nessuno, tra vicini e conoscenti, che fossero in grado o avessero voglia di aiutarlo. Dopo aver sistemato il PC lo vidi raggiante, non finiva più di ringraziarmi, e chiedeva insistentemente di pagarmi; da buon Americano integrato, sapeva che tutto aveva un prezzo e che per ogni servizio avrebbe dovuto pagare. Gli feci capire, con molta fatica, che lo avrei aiutato solo per amicizia, o, se vogliamo, almeno buon vicinato. La storia della figlia, in effetti, mi aveva scosso, pensare di avere i propri cari lontani e vedersi preclusa ogni forma di comunicazione, ecco, mi aveva toccato.
Da quel giorno ero diventato il suo “uzman”, esperto, e io un po’ reggevo il gioco, perché in fondo era un brav’uomo e non mi dispiaceva aiutarlo. Ecco che quindi, periodicamente, si presentava con qualche prelibatezza per festeggiare chissà cosa, o solo per stare un po’ in compagnia. Mangiammo insieme delle buonissime köfte di agnello con salsa allo yogurt, innaffiate dall’ottimo vino, mentre i nostri discorsi cadevano inevitabilmente sui miei viaggi, sulla sua vita, e sulla Turchia. Ecco, la Turchia che tornava, insistentemente, e il pensiero di Sheila, in giro per il mondo, e nella mia mente fantasticavo che, chissà per quale strano motivo, Sheila potesse conoscere la figlia di Nadir, e un giorno ci saremo trovati tutti a Instambul, o Smirne o sulle spiagge di Antalya, ad osservare dove le tartarughe nascono e entrano in mare.
La serata proseguiva, Nadir mi spiegava che mi aveva preparato delle köfte, nella variante Turca, ma in Siria si chiamavano Kafta e prevedevano altri ingredienti, e che c’erano quasi 500 diverse versioni, di questo piatto. Io ascoltavo e annuivo, e rimanevo affascinato dai suoi racconti di viaggio nel deserto, in cui si orientava unicamente guardando il sole, la luna, le stelle e la sabbia, il colore della sabbia. Incuriosito, gli chiesi: “Ma tu, Nadir, ti sei mai perso?“, pensando ad una risposta banale, come “si, no, mai!” e invece lui si fermò, rimase quasi cupo, per un momento, e poi, con la calma che lo contraddistingue, alzando lentamente l’indice in direzione del mio naso rispose con un: “Uzman, mi sono perso tante volte, nella vita, ma mai nel deserto“. Lasciandomi interdetto e ancora più confuso di prima. Con la stessa naturalezza, sciogliendosi in un sorriso ad occhi chiusi, mi offrì del te, per concludere degnamente la serata.
Salutato Nadir, e tornato in possesso della solitudine della mia casa, mi sdraiai sonnecchiante sul divano, gambe all’aria e sguardo al soffitto; poi, con quel gesto quasi meccanico che faccio oramai compulsivamente, estrassi il PC dal mio zainetto e lo poggiai sul petto, rimanendo sdraiato, per sbirciare distrattamente messaggi e mail.
Di colpo feci un sobbalzo, tanto che il PC rotolò ancora aperto fin sul tappeto, cadendo e appoggiandosi su un fianco, come se fosse un libro messo in piedi, o una di quelle lampade post-moderne che si vedono nei musei.
Ripresi velocemente il PC, mentre mi mettevo seduto in modo più ordinato. Una mail, tra tutte, aveva colpito l’attenzione: era Sheila!, mi aveva scritto! il cuore a mille, l’eccitazione, leggevo e rileggevo quelle poche righe, dove mi scriveva del suo viaggio, dei suoi progressi e… che rimpiangeva i nostri momenti a Milano; quel “un bacio” finale mi mandava in visibilio!
Ero sveglissimo, e felice, e confuso, e pieno di mille pensieri e sentimenti, ma soprattutto felice, Sheila mi aveva scritto, stava a me, ora, riprendere il filo dei nostri discorsi lasciati in sospeso.