Non ho mai posseduto un’auto, e nemmeno mi piacciono gli hamburger; le due cose, di per se, non sarebbero nemmeno legate o così strane, se non fossi figlio di un commerciante di auto e di una cameriera, anzi, di una “burger flipper” del South Boston. E forse proprio per quel motivo, per quello spirito di ribellione che ti prende ad una certa età, ho deciso che un’auto non mi sarebbe servita. Ho la licenza di guida, ho guidato moltissime auto, in posti diversissimi, dalla valle della morte, con due taniche di benzina di scorta nel portabagagli, al traffico di Denver al venerdì pomeriggio, tentando disperatamente di raggiungere l’aeroporto, ma anche in Europa, in Spagna, tra i vulcani della Garrotxa, o nella civilissima e solitaria Svezia, dove l’unico pericolo è, a quanto pare, scontrarsi con un alce. Ho guidato e provato diverse auto, ma non ho mai desiderato averne una. A New York, dove vivo, ho sempre usato i mezzi pubblici e i taxi, per muovermi; qualche escursione in bicicletta e a piedi, e, quando ne ho avuto veramente bisogno, ho noleggiato un furgone o un’auto a noleggio.
Per mio padre, invece, l’auto era sacra. “Il futuro è nelle auto, figlio mio“, mi diceva, mentre mia madre, stanca dei massacranti turni al ristorante, annuiva, stretta nel suo grembiule azzurro con i risvolti bianchi, con la targhetta “Lorette” ricamata sul petto, sopra il taschino, e il perenne grembiulino bianco, da cui sbucava il blocchetto e la penna. Penso di non aver mai visto mia madre vestita in modo diverso, nemmeno il giorno della mia laurea, quando riuscì a strappare un misero permesso di un ora, e arrivò in tempo alla cerimonia, ma senza avere il tempo di cambiarsi.
Mio padre non venne; all’ultimo momento lo chiamò un possibile compratore di una Cadillac, e non volle farsi sfuggire l’occasione.
Mentre riflettevo sugli hamburger e sulle Cadillac, il tassista mi annunciava di essere arrivato: “Sono 17$ e 50, amico“
Tirai fuori un biglietto da venti e lo porsi in avanti, un severo e pensoso Andrew Jackson sembrava scrutare l’orizzonte in cerca di una soluzione ai suoi dubbi, ma il tassista, con una rapida e silenziosa mossa, lo sfilò dolcemente dalle mia dita, per riporlo in una tasca della sua giacca.
Entrai da “Turnbull & Asser“, 50 E 57th St. Era diventato il mio negozio di abbigliamento preferito, con quell’atmosfera così inglese che avevo provato solo passeggiando per Mayfair, a Londra, con i suoi negozi sartoriali. Il vecchio sarto, Bradley, arrivato direttamente da Londra, dopo la pensione per organizzare l’apertura del negozio, aveva preferito rimanere un po’ di più, e non era più tornato a casa, innamorato, o meglio, stregato, dalla scintillante New York.
D’altronde quel pezzo della 57sima, a pochi passi da Central Park, gli ricordava un po’ la sua Londra, con quelle architetture vittoriane incastrate tra gli scintillanti grattacieli.
Quella volta lo trovai intristito, e gli chiesi cosa fosse successo.
“Vedi, figliolo, mi hanno detto che questo edificio è destinato a scomparire, al suo posto faranno un altro grattacielo, ancora non si sa se questo negozio si salverà o meno“. Parlava, mentre, con le abili mani, toglieva gli ultimi spilli dalla camicia, e la riponeva nella velina, per poi consegnarmela in una elegante custodia nera, con lettere marchiate in oro, la voce rotta dall’emozione, non sapevo proprio cosa dire. Pagai il conto, e, mentre stavo per uscire mi sentii di dire un “Vedrà, Bradley, che andrà tutto bene”; rasserenato dalle mie parole, e rompendo il suo innato senso per la riservatezza accennò, sorridente, un “…e un giorno mi spiegherà come ha fatto a strappare tutti i bottoni in una volta sola…”. Abbozzai una faccia imbarazzata e presi la via della porta.
Uscito dal negozio, mi ritrovai ad osservare quel pezzo di strada, con la sua storia, e pensai di osservarlo forse per l’ultima volta, prima che venisse abbattuto, sostituito, rinnovato, rivenduto. Per fortuna, a due passi, Central Park, quasi immutato e immutabile da oltre 150 anni, con i suoi laghi, il suo verde, lo zoo, e tutto il resto. Entrai dal lato sud, e, passeggiando arrivai fino alla statua di Balto, ancora oggi punto di venerazione dei vari amanti dei cani e degli animali, o dei bambini che hanno visto il film e via dicendo. In quel punto c’è una lunga panchina dove è facile trovare posto, ed è un luogo dove mi è sempre piaciuto soffermarmi un attimo, anche per leggermi un libro o semplicemente sfuggire per un attimo alla morsa della città.
Sulla panchina trovai, immersa nella lettura, una vecchia conoscenza: Lisa, che fu il mio primo punto d’appoggio, appena arrivato a New York, e che avevo poi progressivamente perso di vista. Lisa era stata anche la mia compagna, per un po’, ma quell’unione che forse era troppo a senso unico, era finita una sera di Gennaio, quando presi la mia valigia e andai a dormire in una camera mista a 4 letti al “Giorgio Hotel” di Long Island City. Lisa, senza nemmeno alzare gli occhi dal libro disse: “Compri ancora le camicie su misura da Turnbull & Asser, eh?” poi, con lo stesso sorriso con cui mi aveva accolto il primo giorno:”dai, siediti, ho due sandwich al tonno e un sacchetto di dolci Ungheresi, quelli che piacciono anche a te“
“Li hai presi in quel posto in Amsterdam Avenue, vero? Sono buonissimi”
Lisa conosceva bene i miei gusti, eravamo stati compagni di Liceo a Boston, e poi lei era partita per seguire i genitori, e non l’avevo più vista. Naturale che, appena arrivato a New York, fossi andato diretto da lei, unica mia conoscenza, all’epoca, in tutta la città. L’avevo trovata cambiata, non solo cresciuta, ma cambiata come carattere; la sua adolescenziale allegria aveva lasciato spazio ad un carattere più cupo e introverso, ma, nonostante tutto, mi accolse come un fratello, e, più tardi, come più di un fratello.
Rimasi con lei fino al pomeriggio, ignorando bellamente le mille chiamate del mio capo, mangiammo insieme tutti i Kürtőskalács, i “camini dolci” che mi aveva fatto conoscere proprio lei, durante i nostri lenti brunch domenicali.
“Stai ignorando le chiamate dall’ufficio, non ti riconosco più!” Disse ridendo; era vero, nemmeno io mi stavo riconoscendo più, da quando ero tornato. Ero cambiato, e mi piaceva un sacco. Allungai le gambe e incrociai i piedi, rimirando le costose scarpe comprate in Italia, e ripensando alle vecchie sneakers con cui ero arrivato a New York qualche anno prima.
“C’è ancora un Kürtőskalács?“
“Mi spiace, sono finiti, golosone!“
Silenziai per l’ennesima volta la chiamata in arrivo, poi guardai Lisa:
“Ti va un caffè?, qui vicino fanno un «Expresso» fantastico“
“Un buon caffè non si rifiuta mai“.
Ci alzammo e la presi sottobraccio; lei, stupita, disse: “Ehi, adesso davvero non ti riconosco!, cos’hai in mente?“
“Lo vedrai“.
Tornato a casa, ripensai a tutta la giornata, i miei genitori, Bradley, il suo negozio, e poi… l’incontro con Lisa e la lunga chiacchierata. Una giornata particolare, come non ne avevo passate da tempo. Ero davanti al mio PC, nel salotto di casa, il telefono silenziato, un disco di Pete Levin, “Möbius“, in sottofondo, la mia tazza di Americano sul bracciolo della poltrona, tutto il necessario per creare l’ambiente giusto, l’atmosfera, l’ispirazione, ma ero davanti allo schermo bianco, quasi accecante, senza nemmeno battere un tasto. Ero fermo a quel “rispondi a” sulla mail di Sheila, immobile, come la prima sera che la vidi, quando entrò da quella porta. Nella mia mente, un groviglio di pensieri, la voglia di scrivere lunghi discorsi, di parlarle di New York e… insomma, la voglia di rivederla, ri-abbracciarla. Tutti quei pensieri mi avevano frenato, nel rispondere. E se si fosse offesa? e se non gli fosse piaciuta la risposta? e se…
“Basta!” mi sorpresi a gridare da solo, e subito dopo mi misi a ridere.
Quella risata mi bastò, per riportarmi a quella sera, alle sue labbra, alle nostre risate.
Bevvi un sorso di caffè bollente, e cominciai a scrivere:
“Cara Sheila, è bellissimo poter leggere il tuo messaggio, l’ho tanto aspettato! So che sei in giro e non ti è facile comunicare, ma ti immagino felice, tra monumenti, ville, musei e paesaggi mozzafiato. Fai il pieno di bellezza anche per me, perché poi… mi dovrai raccontare tutto!
Qui a New York tutto è tornato alla normalità, sono rientrato al lavoro, ma non vedo l’ora di poter fare il prossimo viaggio, chissà dove, non importa, ma in viaggio.
Ti mando un forte abbraccio, di quelli che strizzano e non vedo l’ora di rivederti, chissà dove, chissà quando…
ps: si, sono andato a Grand Central e ho trovato i Doughnuts più buoni di tutta New York, ma… anche il più dolce dei dolci, è senza sapore, se non è mangiato in compagnia; ti aspetto qui, per mangiarne uno insieme“